Post by Emanuelapotremmo cercare e ripubblicare qualcuno dei suoi racconti, così, giusto per far assaggiare
alle nuove generazione usenettiane com'era viaggiare davvero e partecipare davvero a questo gruppo.
Io metto il primo capitolo. Se qualcuno vorrà leggere il seguito basterà cercare.
In ricordo di Pietrone un suo scritto:
RUTA MAYA I
PROLOGO
Correva l'Anno Domini 1997, alle prime luci plumbee di un'
alba buia e tempestosa, esattamente le sette d'un mattino
che non lasciava presagire nulla di buono, del Die Dominae
otto di Marzo, d'un giorno dedicato all'ombroso Saturno,
quando un piccolo pulmino anonimo si staccava furtivamente
da ...., carico di conquistadoras.
No, non è errore di stampa: erano proprio tutte donne le
ardimentose che si accingevano all'eroica impresa nelle
lontane terre della Nueva España, dalla gloriosa
Tenochtitlan, proprio nel cuore della Mesa Central, sino ai
lontani llanos guatemaltechi e honduregni di Quiriguà e
Copàn.
In fatti, le cronache puntigliose dell'epoca registrano
quattro "vestali": Maria Luisa (Marilù), Emiliana, Mirella
(la Telefonista), Silvana, la "mamacìta" (Giovanna) e Anna
(la "niña").
Con G. J. (che Lui vorrebbe spacciare per monogramma del
Grande Jefe, il "grande capo", e invece è soltanto l'
abbreviazione, per gli amici, di Gordo Jefe, il "grasso
capo") che è imbarcato al casello di ....., il gruppo è
quasi pronto per l'importante spedizione: la... Conquista de
la Nueva España.
Finiti i prodromi, il resto è cronaca.
O è già leggenda?
Ma andiamo con ordine...
SABATO - ITALIA / CIUDAD DE MEXICO
Tutto liscio fino a Parigi dove, lentamente, ci trasferiamo
al Terminal A.
Nell'attesa del nostro aereo, chi dirige ai servizi e chi si
cala in un panino. L'ora si avvicina e, dopo i rituali
controlli di dogana, ci sistemiamo nel nostro "gate", ove ci
congiungiamo con gli ultimi due partecipanti, in arrivo
dalla Svizzera: Giulietta e Romeo... pardon, Finetta e
Aloys. Il gruppo è finalmente al completo.
La partenza per Città del Messico è in perfetto orario. Sull
'aereo il tempo passa tra un film, una dormita, una
sigaretta, mangiare, secondo le attitudini individuali. A
Città del Messico, dopo l'ispezione bagagli, usciamo ad
incontrare un ragazzotto molto simpatico mandato dalla
nostra agenzia corrispondente, già nota al Gordo Jefe (d'ora
in avanti più semplicemente, o più pietosamente: G. J.). Su
due pulmini dirigiamo all'Hotel Ritz ove, il tempo di
lavarsi le mani e siamo subito a tavola per cena. La cena è
buona: zuppa, pollo fritto e patate, una bella fetta di
torta ed un pessimo caffè, ma a questo dovremo abituarci.
Dopo aver versato la quota della cassa comune per le bevande
e le mance, guadagniamo le nostre camere.
Primo pernottamento: Ciudad del Mexico - Hotel Ritz.
DOMENICA - CIUDAD DE MEXICO
Sveglia per tutti alle otto, ma G. J. si fa svegliare una
mezz'ora prima "como sus costumbre". Alle otto e trenta:
colazione. Ma alle otto e cinque siamo già tutti seduti (i
malevoli aggiungono: tranne G. J.). Cambiamo i primi soldi:
con un dollaro danno 7,60 pesos, che tradotto in lire
significa che un pesos vale circa 220 lire.
Sono pronti ad attenderci: nella hall la nostra guida
Bernardo, un tracagnotto dal tipico baffo messicano, e alle
nove il pulmino fuori dell'Hotel. Prima tappa è la Piazza
della Costituzione o "Zocalo", dove visitiamo il Palazzo del
Governo con i suoi meravigliosi "murales" che Bernardo ci
spiega doviziosamente in un italiano tutt'altro che
splendido: dice averlo imparato in diciannove giorni,
filando un'italiana! Bernardo, un antigovernativo forse
massone, parla bene di Benito Juarez, che ci mostra
rappresentato nei murales davanti un Tempio del G.A.D.U.
(Grande Architetto dell'Universo). Con le sue spiegazioni
tradisce d'essere amante della rivoluzione al punto di
ritenere il sub-comandante Marcos un massone al soldo del
PRI (Partido Revolucionario Institucional) per tenere ".las
cosas muy tranquilas".
Fuori il Palazzo, nella piazza, una manifestazione di
"azucadores", gli operai che lavorano lo zucchero.
Il Zocalo è stato edificato proprio nell'area sacra del
cuore dell'antica Mexico-Tenochtitlan, la capitale dell'
Impero Azteco, e ci rechiamo a vederne il modellino
riprodotto in un lato della piazza, alla destra del Sagrario
Metropolitano, opera somma del barocco churrigueresco,
proprio davanti i resti dell'azteco Templo Mayor.
Entriamo nella Cattedrale, in vistoso restauro, tutta
puntellata con incastellatura di tubi di ferro, a
controbilanciare gli spaventosi sprofondamenti nella falda
freatica. Non riusciamo a vedere al centro il diagramma con
il grande filo a piombo, che segna le varie fasi dello
sprofondamento, ma G. J. ci garantisce d'aver visto
segnalato un consistente raddrizzamento dall'inizio dei
restauri.
Usciti, ci affacciamo nell'Hotel di Ciudad de Mexico,
stupendo capolavoro d'arte Liberty. Il soffitto a vetrate
coloratissime crea, specchiandosi in un tavolino, un effetto
ottico particolare, subito colto dalle nostre curiose
macchine fotografiche.
La tappa seguente è il Museo Archeologico, sulla collina di
Chapultepec, già luogo di villeggiatura dei sovrani aztechi,
il cui nome deriva dalla parola nahua "chapulin"
(cavalletta): quindi "Collina delle Cavallette". Arrivando,
assistiamo all'esibizione dei "Voladores" di Papantla.
Davanti il Museo, foto di gruppo alla statua di Tlaloch, dio
della pioggia, il cui trasferimento dall'antica Teotihuacán,
la capitale della Mesa Central nel periodo "classico", dove
fu trovato, comportò un diluvio d'una decina di giorni, con
rovinosi allagamenti. Prima della visita ci facciamo un
drink al bar del museo: principiando confidenza con le prime
"Margarite" e "Piñe Colade", che diverranno compagne
inseparabili di alcuni di noi per tutto il viaggio. Si crea
una cassa comune affidata a Silvana, valente ragioniera
vegetariana.
L'accurata visita avviene con la piacevole compagnia d'una
coppia d'universitari che ascoltano attentamente le
spiegazioni della guida e del nostro G. J. che, sull'
entusiasmo, tenta anche la lettura d'una data maya, franando
miseramente sull'anno tropico, del quale non ricorda però
più l'esatta durata. Si riprende con l'attribuzione allo
stile di Yaxchilán d'una stele che Bernardo voleva collocare
a Palenque. Non trascurando alcuna sala, dopo cinque ore
ininterrotte, siamo provati ma contenti.
Sono le ore 18.00: si rientra in albergo, una doccia veloce,
e... tutti a cena.
Dopo cena vincendo la stanchezza, cinque di noi, G. J., La
Mamacìta, Emiliana, l'inseparabile sorella Mirella (La
Telefonista) e la Niña, s'incamminano verso Plaza Garibaldi.
Lungo la strada, bancarelle di "Tacos", "Papas Frias",
"Tortillas", e sopr'a tutto radioline, cassette e CD.
Naturale che per quest'ultime, che abbisognano di corrente
elettrica, se la vadano a prendere dov'è: sui lampioni a
lato della strada o sui semafori al centro attraversando con
grossi cavi elettrici, se del caso, anche la sede stradale!
In piazza, lo spettacolo è suggestivo: capannelli raccolti
attorno ai "mariachis", juke-box in carne ed ossa, ad usare
una espressione di G. J., con tanto di sombrero, chitarre,
trombe, violini, cembali, maracas, pronti suonare a
pagamento i motivi preferiti, recandosi anche, a richiesta,
nelle case private e nei locali ove avvengono sposalizi, o
si festeggiano anniversari.
Da bravi turisti (anche se i "mariachis" suonano sopr'a
tutto per i messicani) non si resiste a lungo, e La Mamacìta
e G. J. offrono 150 pesos di "Cieliti Lindi", "Malagueñe",
"Guadalajare" e "Cucarache" al gruppuscolo, che rientra in
albergo alquanto soddisfatto.
Secondo pernottamento: Ciudad de Mexico - Hotel Ritz.
SCHEDA I - I "VOLADORES" DI PAPANTLA
La "Danza dei Voladores" è una delle cerimonie messicane più
spettacolari. Una volta, nella prima epoca coloniale, era
eseguita soltanto il fine settimana precedente il Corpus
Domini e, come per altre tradizioni folcloristiche, la
festività cristiana era l'occasione per festeggiare qualcosa
di più terreno: l'annuale raccolto di vaniglia da cui
dipendeva la sopravvivenza dei Totonachi.
Un tempo anche la ricerca dell'albero seguiva un rituale del
tutto particolare: doveva, infatti, pervenire dalla giungla
ed essere alto e dritto, mentre oggi se ne usano anche d'
acciaio.
La danza viene naturalmente da lontano. Trattasi d'un
importante rito propiziatorio precolombiano con cui gli
antichi Totonachi tentavano ingraziarsi i tempi a venire:
stagione, anno, secolo. In memoria di questo, i quattro
danzatori sono vestiti di rosso, con un copricapo fatto di
piume d'aquila o di macao; si muovono verso il palo e si
arrampicano guidati da una musica di un flauto che onora i
quattro punti cardinali, le quattro parti del mondo, poi si
lasciano cadere all'indietro e le corde alle quali sono
legati cominciano a svolgersi, lasciandoli liberi girare
intorno al palo a testa in giù e a braccia aperte per 13
volte, rappresentando così simbolicamente le quattro epoche
di 13 anni che costituiscono l'antico ciclo vitale totonaco,
appunto di 52 anni.
Il ciclo di 52 anni, il secolo precolombiano chiamato "ciclo
sacro", aveva particolare importanza anche perché
moltiplicandolo per cinque si otteneva un Katun Ahu o anno
sacro di 260 anni cui erano attribuiti profondi cambiamenti,
e coincideva inoltre con i periodi di massima vicinanza
della terra al pianeta Venere, tenuto in gran considerazione
perché dimora degli dei.
SCHEDA II - MUSEO ANTROPOLOGICO
Sorge nel Parco di Chapultepec, il più bel parco naturale
della città, ed espone ogni manufatto e reperto possibile e
immaginabile: gioielli, strumenti musicali, ceramiche,
arazzi, costumi, decorazioni di templi, offerte sepolcrali,
statuette, insomma tutto ciò che aiuta ad apprezzare le
civiltà precolombiane.
L'edificio è l'espressione più avanzata d'architettura
moderna di tutta la città, un armonico equilibrio di spazi
aperti e strutture chiuse. Il primo impatto è la "sala d'
orientamento e presentazione dell'antropologia messicana"
dove, molto spesso, sono proiettati filmini o dia-tape sulla
vita e sulle culture del Messico precolombiano, un invito in
più ad entrare. Da qui si accede al patio centrale, dove si
aprono le dodici sale del piano terra dedicate al Messico
pre-ispanico, e dove si affacciano le dieci sale
etnografiche del primo piano.
Percorrere le sale è un viaggio nella storia: dal Periodo
pre-classico in cui nacquero l'arte della ceramica e il
culto per i morti, alla cultura di Teotihuacán, forse la più
importante della Mesoamerica, con i modelli della Piramide
del Sole e del Tempio di Quetzalcoatl, alla cultura tolteca,
con i motivi guerrieri che ne rilevano lo spirito bellicoso,
agli Aztechi con l'immensa ruota del Calendario (o Pietra
del Sole) di una raffinata grafica ed estrema stilizzazione.
E ancora, le culture di Oaxaca, con i "danzantes" zapotechi
di Monte Albán e i gioielli mixtechi, le culture della Costa
del Golfo, con i giganteschi monoliti olmechi e la figura di
"adolescente" (forse il giovane Quetzal) lasciataci dagli
Huaxtechi e, infine, la cultura maya, sinonimo di splendore
dell'era precolombiana.
SCHEDA III - I " MURALES"
L'affresco contemporaneo di sfondo ideologico nasce nel
Messico degli anni 1910 e 1920; il "muralismo" è il prodotto
artistico della rivoluzione, è un fenomeno derivante dall'
esperienza di un gruppo di personalità creative, impegnate a
far coincidere l'espressione artistica con il messaggio
politico di un ampio moto sociale.
Lo spirito della rivoluzione nel '910 e lo sciopero degli
studenti dell'Accademia di Belle Arti nel '911 uniscono il
popolo agli artisti, i quali partecipano alla lotta nelle
file rivoluzionarie ed è, quindi, una loro aspirazione
riuscire, con l'arte, a raccontare tutto il "vissuto" delle
nuove emozioni libertarie.
Poi gli ideali della rivoluzione, democrazia borghese e
riforma agraria, sembrano già sorpassati e si dipinge alla
luce di una rivoluzione proletaria; artisti come Rivera,
Siqueiros e Orozco s'iscrivono al Partito Comunista e, nel
'923, pubblicano il "Manifesto" in cui si legge tra l'altro:
"Non rinchiuderemo le nostre opere nei musei, dove solo chi
ha tempo può andarle a vedere... dipingeremo i muri delle
vie, dei palazzi pubblici, dei sindacati, di tutti i posti
dove si raccoglie la gente che lavora".
Da allora il "muralismo" si realizza all'interno e all'
esterno d'edifici e di scuole con una vitalità
straordinaria, esaltando sia la tradizione autoctona
precolombiana, sia il mito della rivoluzione.
La triade Rivera, Siqueiros e Orozco, a capo del gruppo di
artisti del "Sindacato", è caratterizzata da elementi
alquanto diversi tra loro: Rivera segue chiaramente la
tradizione india, mentre gli altri due sono violentemente
espressionisti. Agli inizi degli anni '30 esportano il
"muralismo" negli Stati Uniti, dapprima con risultati
graditi, per concludersi poi in esperienza travagliata,
culminante nel famoso episodio dell'affresco per il
Rockfeller Center di New York, contestato a Rivera, mentre
era ancora in esecuzione, perché conteneva la figura di
Lenin. L'affresco è distrutto poco dopo per il rifiuto dell'
artista a modificarlo. Sarà dipinto al Palazzo delle Belle
Arti a Città del Messico, dedicato alla Rivoluzione Russa,
in cui risaltano le figure di Lenin e di Trotzsky, con sullo
sfondo l'Armata Rossa.
Tornati in patria i tre grandi artisti si ritrovano uniti
nella difesa del ruolo politico delle loro opere durante la
presidenza dello zapatista Cardenas, e poi, mentre Rivera
continua la sua monumentale opera sulla storia del Messico
al Palazzo Nazionale, Siqueiros sperimenta nuove tecnologie
pittoriche, quali la vernice a spruzzo, l'uso del proiettore
per tracciare i contorni e scopre e usa l'accidente
pittorico, in altre parole organizza, in maniera
straordinaria, ai fini espressivi, gli effetti casuali dell'
essiccamento delle materie cromatiche; sempre in prima
linea, si batte per la liberazione dei prigionieri politici
e per le garanzie democratiche, s'interessa attivamente a
tutti i problemi sociali dell'America Latina e sarà lui a
concludere la straordinaria esperienza del muralismo nato
dalla rivoluzione.
LUNEDÌ - MEXICO / TEOTIHUACÁN / TULA / MEXICO
Giornata dedicata a Teotihuacán, Tula, alla chiesa di Nostra
Signora di Guadalupe, protettrice del Messico e (G. J.
spera) anche alla fortezza-tempio chichimeca di Tenayuca.
Sveglia alle sette, colazione sette e trenta, partenza ore
otto. Puntiamo direttamente su Tula, la località più lontana
di quelle che dobbiamo visitare oggi. La strada per
arrivarci, una superstrada che punta al nord verso lo Stato
dell'Hidalgo, dove si trova la nostra meta, non è molto
entusiasmante: poco verde, tanti cactus, agavi, acacie. A
Tula però lo spettacolo diviene suggestivo, anche solo per
la passeggiata che separa l'area archeologica dal
parcheggio. C'incamminiamo sul sentiero che mena alle
"ruinas", attenti a dove mettiamo i piedi, perché un
cartello moralistico redarguisce:
Las plantas de este lugar
se protegen con sus espinas,
y los reptiles
con sus mordeduras.
Cuidate, no te salgas
del andador.
A buon intenditor...
Ci viene incontro, per prima cosa, il muro dei "Caracoles
Cortados", le conchiglie sezionate, simbolo solare che,
assieme ad un motivo ritmico di rilievi raffiguranti
serpenti che divorano crani, decorano appunto il muro posto
intorno il tempio a mo' di protezione.
Saliamo poi sulla Piramide di Tlahuizcalpantecuhtli, la più
importante di Tula, con gli enigmatici atlanti-guerrieri
collocati sulla piattaforma in esatto ordine gerarchico; il
volto, i simboli che adornano braccia e gambe, le stesse
loro armi, li mostrano come servitori del sole, difensori d'
una divinità di cui portano l'immagine sul petto (uccello o
farfalla?).
Dall'alto della piattaforma templare osserviamo il Tempio
delle Mille Colonne, ed un Chac-mool, particolare pietra
sacrificale, ancora oggi scultura indecifrata.
Le signore, che paiono più attratte dalla botanica che dall'
archeologia, si attardano a fotografare varie specie di
cactus. All'uscita, G. J. chiede informazioni circa l'
esistenza nei paraggi, se la memoria non gli faceva difetto,
d'un Tempio-osservatorio rotondo dedicato, come tutti i
consimili, al dio del vento Ehecatl, una delle tante
versioni azteco-tolteche di Quetzalcoatl. Con buona pace di
Bernardo, che ne negava l'esistenza non avendolo mai visto,
l'osservatorio esiste ad un chilometro circa di distanza.
Ci si incammina a piedi a cercarlo, lungo un tronco di
strada asfaltata abbandonata da una variante; la passeggiata
risulta sicuramente più interessante del tempio, che
degniamo appena della foto di rito. Rimangono indietro, e
non vedono quindi il tempio, La Mamacìta e la Niña,
attardatesi non si sa per cosa.
È mezzogiorno quando escono i primi panini sul pulmino che
ci sta trasportando a Teotihuacán; dove arriveremo intorno
all'una e mezza, per infilarci subito a bere qualcosa in uno
di quei ristorantoni per turisti, anzi che intraprendere la
nostra prima ascensione piramidale.
Dapprima siamo al Palazzo dei Giaguari e dei Pappagalli,
poi, attraverso il cortile di Quetzalpapalotl, alla Piramide
della Luna. Da sotto, la vetta appare irraggiungibile, ma l'
incanto del posto mette le ali ai piedi ed, in un attimo,
siamo su a goderci il lungo cannocchiale del Viale dei
Morti.
Discesi, c'incamminiamo alla Piramide del Sole seguiti da un
nugolo di venditori di statuine ed altri ammennicoli.
Siamo, più che mortalmente stanchi, vittime incoscienti
(specie la dolce Marilù) di quelle Piñe Colade e Margaritas
dissennatamente tracannate al ristorante, onde tergiversiamo
sul salire o meno fino a che G. J., con severo rimprovero,
ci spedisce tutti fin sulla cima, dove la soddisfazione è
tanta che la Niña e Silvana, non sanno evitarsi d'intonare
un inno al sole, osservate con stupore compiacente dai
turisti che affollano la vetta della piramide. Poi, tutti
contenti d'essere saliti, ci intratteniamo anche a
perfezionare la foto di gruppo.
La camminata verso la "Ciudadela" diviene quasi una corsa,
perché il tramonto è alle porte ed il sito sta per chiudere.
Ma, a malgrado di ciò, G. J. riesce lo stesso nella sua
incetta di tartarughe per la suocera comprandone, da
venditori che seguono instancabili, quattro in terracotta a
guisa d'ocarina, più un tot in oxidiana rossa ed in quarzo
trasparente. Però la "Ciudadela" ha già chiuso i battenti, e
ci vuole una buona "propina" al custode per poter entrare.
Ma in questo modo (anche se le tartarughe di Pietrone non
hanno colpe né meriti) la visita risulta decisamente più
emozionante: siamo assolutamente soli, senza la calca dei
visitatori, in cui sgomitare a fatica coi
"Ventottomillimetri" e gli Zoom.
A visita finita ed il gruppo è molto soddisfatto, ma la
giornata non è ancora conclusa: ci aspetta il Santuario di
Guadalupe. Alla chiesa, mentre G. J. si affanna a farci
cogliere gli strapiombi e gli sprofondamenti (che sono tre
le chiese), Bernardo ci racconta la storia del miracolo
delle rose che si trasformano nell'immagine della Madonna
sul mantello del Vescovo. Entriamo; la chiesa è opera di
Vasquez, sempre l'architetto dello stupendo Museo
Archeologico, ma di risultato assai diverso: più che in una
chiesa, dice il Capo che d'architettura dovrebbe capirne,
par d'essere all'interno d'un Palazzetto dello Sport!
Rientriamo in albergo e ceniamo subito, giusto appena dopo
esserci lavati le mani; siamo tutti molto stanchi e si parla
a fatica.
Terzo pernottamento: Ciudad de Mexico - Hotel Ritz
SCHEDA IV - TULA
Durante il primo periodo post-classico (900 - 1200 d.C.) fu
la civiltà tolteca a dominare dalla sua capitale, Tula, la
maggior parte del Messico settentrionale e centrale. Nel
fondare Tula, i Toltechi si ispirarono direttamente a
Xochicalco e, indirettamente, a Teotihuacán, abbandonata
circa due secoli prima.
L'arte tolteca è espressione d'un popolo nuovo, giovane e
guerriero, ma con una forte inclinazione alla creazione
artistica, che introdusse nuovi elementi, come i grandiosi
colonnati che circondano il Tempio di Tlahuizcalpantecuthli
(la versione di Quetzalcoatl come luce dell'alba e simbolo
del pianeta Venere), gli atlanti-guerrieri che sostenevano
il tetto e i cortei di aquile e giaguari. Elementi nuovi,
indici dell'esigenza di conciliare le forme architettoniche
con lo spirito guerriero ed il culto degli dei, entrambi
molto sentiti; e quindi abbiamo il piccolo tempio-piramide
del periodo classico sostituito da locali molto più ampi,
colonnati, dove l'aristocrazia guerriera teneva le proprie
riunioni.
Altra novità, il Chac-mool, terrificante divinità
rappresentata distesa sul dorso, con le ginocchia piegate e
lo sguardo inespressivo, nell'atto di sorreggere sullo
stomaco un vassoio in cui, presumibilmente, era depositato
il cuore delle vittime sacrificate. Elemento tipico anche la
colonna a forma di serpente con la testa poggiante sul
pavimento e il corpo proteso verso l'alto, elemento
architettonico che si ricollega naturalmente a Quetzalcoatl,
leggendario personaggio, uomo-dio. Figlio di un condottiero
e di una principessa di un'altra tribù, nasce con il nome di
Ce-Acatl (Uno-Canna, anno della sua nascita) e assume il
nome Quetzalcoatl dai sacerdoti che lo educano alla morte
dei genitori. Divenuto adulto, vendica il padre, ucciso
dallo zio, quindi sposta la capitale prima a Tulacingo poi a
Tula, fondando così l'ultima capitale tolteca.
A questo punto la sua figura si sdoppia: da una parte il
Serpente Piumato, dio della pace, che porta agli uomini la
pianta del mais e insegna l'agricoltura, e dall'altra l'
uomo, sommo sacerdote, pensatore mistico e metafisico. Egli
abolì i sacrifici umani sostituendoli con offerte di fiori,
contrariando così la casta dei guerrieri che cercarono in
tutti i modi di renderlo impuro; gli regalarono perciò uno
specchio, il re vedendosi brutto (ed in effetti lo era)
affogò nell'alcool i suoi dispiaceri e, ubriaco, avvolto in
un mantello di piume salì su una zattera, e prese il mare
promettendo di ritornare in un altro anno Uno-Canna.
Ed è per questo che quando Hernán Cortés sbarcò sulla costa
mesoamericana, nell'anno Uno-Canna, il re azteco Montezuma
credette trovarsi di fronte al ritorno di Quetzalcoatl, il
dio "barbuto" dalla pelle bianca, come narrava tradizione.
Tula concentra, in un'area archeologica di limitate
dimensioni, molte delle innovazioni culturali destinate ad
integrarsi nelle tradizioni di altri popoli: sull'altipiano
l'eredità tolteca verrà raccolta dagli Aztechi, e sopr'a
tutto nel lontano Yucatán, a Chichén Itzá, la rustica arte
guerriera avrà modo di combinarsi con la raffinata
tradizione decorativa del maya Puuc dandoci ancora, per due
o tre secoli, una stagione di alti risultati artistici.
SCHEDA V - TEOTIHUACAN
Il nome significa "luogo in cui furono creati gli dei". La
leggenda azteca, infatti, racconta che gli dei si riunivano
qui alla fine di ogni sole, cioè alla fine di ogni era; all'
inizio della nostra, dopo le distruzioni operate dai
giaguari, dagli uragani, dal fuoco e dal diluvio, gli dei si
riunirono in questo luogo per l'ultima volta a scegliere il
nuovo Sole e la nuova Luna.
Per circa mille anni questa valle fu abitata da agricoltori,
prima dell'invasione olmeca dell'anno 100 a.C. Raggiunse l'
apogeo nel V secolo, con una struttura urbanistica che
rifletteva la rigida stratificazione teocratica: un centro
occupato dal sovrano, concepito come essere divino e
sacerdote al tempo stesso, intorno un cerchio di case per i
nobili, intermediari tra gli uomini e gli dei, un altro
cerchio di case per musici e attori, animatori delle
cerimonie e, discosto, l'ultimo cerchio per gli artigiani,
gli operai, gli agricoltori, i servi, gli schiavi.
Diversi fattori contribuirono allo sviluppo di questa
civiltà: la posizione geografica sulla via di comunicazione
con le coste del golfo, donde arrivavano cotone, cacao e
pietre preziose; le sorgenti sotterranee, che rendevano la
valle estremamente fertile; il vulcano Tenan che forniva una
pietra durissima, l'oxidiana, da cui gli abitanti impararono
a staccare lame affilate come bisturi, e infine l'abilità
nella lavorazione del vasellame che costituiva, con gli
utensili di oxidiana, fonte di esportazione.
Intorno il 750 d.C. la città fu saccheggiata e distrutta da
incendi, molto probabilmente a causa di interne ribellioni
al crescente militarismo della casta regnante, epilogo del
declino economico dovuto alla perdita del monopolio dell'
oxidiana ed all'impoverimento dei terreni coltivabili.
Tutti gli edifici che ammiriamo oggi sono stati edificati
tra il 300 e il 900 d.C. Su tutti primeggia la Piramide del
Sole, detta così dagli Aztechi perché il sole, il giorno
zenitale, tramonta proprio di fronte la grande scalinata. E'
la struttura più alta, ed è stata ubicata proprio in quel
punto per la presenza, sotto il centro della piramide, d'una
caverna naturale considerata dagli antichi abitanti "luogo
di nascita" degli dei, dell'uomo, del mondo: di tutto, in
somma. Singolare, l'inclinazione decrescente delle facce che
impedisce, salendo le scale, vedere chi sta più in alto,
dando così l'impressione che le persone svaniscano nel
cielo.
Più piccola, la Piramide della Luna, posteriormente
costruita, come denota il suo stile più sofisticato ed
elegante.
Sulla stessa piazza della piramide si affacciano anche il
Palazzo delle Farfalle, il Palazzo di Quetzal Papalotll,
forse abitazione di un sacerdote, con una bella scala ornata
con enorme testa di serpente che termina in un portico; da
qui si accede ad un patio con gallerie sostenute da pilastri
istoriati con figure mitologiche, il Quetzal Papalotl, il
gufo e il dio Quetzalcoatl.
Tutte gli edifici sono disposti lungo l'asse principale
delle città, il Miccaotli (Viale dei Morti), costruito circa
due secoli dopo gli edifici più importanti, nel periodo di
massimo sviluppo urbano; fu chiamato così dagli Aztechi che
scambiarono per tombe di antichi re le piccole piattaforme
poste ai suoi lati.
Al termine dell'attuale viale, ma che doveva trovarsi
esattamente al centro dell'antica area urbana, anche della
vasta area a tutt'oggi inesplorata, sorge una struttura
quadrata, la Ciudadela, un vasto cortile dove si trova il
più bell'edificio di tutta la città: il Tempio di
Quetzalcoatl. E' una piccola piramide i cui terrazzamenti
sono un'alternarsi di "talud", piani inclinati, e "tableros"
, piani verticali. La scalinata è delimitata da "alfardas",
avancorpi con teste di Serpente Piumato, alternati alla
severa maschera di Tlaloc, il vecchio dio della pioggia, e a
motivi marini, quali conchiglie.
MARTEDÌ 11 MARZO - MEXICO / TUXTLA / S. CRISTOBAL DE LAS
CASAS
La triade del mattino è un bel sei e trenta per la
despertadora, sette per il desayuno, e vamos alle sette e
trenta (non vamonos, come sostiene l'approssimato Bernardo).
Oggi è giornata di trasferimento: alle 9 e 35 abbiamo l'
aereo che ci porterà a. Il volo (MX 7943) è OK, tranne il
vulcano Popocatepetl che ci ritroviamo sulla sinistra e non
sulla destra, come aveva con sicurezza affermato il
Bernardo. Ah, si dimenticava, Bernardo ha avuto dall'
agenzia, su nostra richiesta, consenso accompagnarci per
tutto il resto del viaggio (ovviamente solo la parte
messicana) e siamo tutti contenti perché è una guida
piacevolissima, che sta allo scherzo (il Capo non gliene fa
passare una), e che ci allieta con le sue sonore risate.
A Tuxtla c'è già il pulmino che ci aspetta con il nostro
nuovo autista, David, che scopriremo in seguito ragazzone (a
parte, "niente male" per unanime giudizio) di solida e
attenta cultura sulla civiltà maya.
Il paesaggio è decisamente diverso, sembra essere ai
Caraibi: tanto verde, alberi rigogliosi, fiori dai mille
colori. Silvana impazzisce, salta da un sedile all'altro, da
una jacaranda all'altra, da un'euforbia ad un cactus, a un
maguey, cercando di vedere il più possibile. La strada per
arrivare a San Cristobal de Las Casas è faticosa. Saliamo a
2300 metri tra migliaia di curve, in mezzo ai villaggi
indios, con porzioni di paesaggio simili a quello delle
nostre montagne. Arriviamo in albergo, il Flamboyant, una
bellissima hacienda con camere arredate in stile coloniale,
curate fin nei minimi particolari. Piccola sosta in albergo
per un breve spuntino a base di "tacos" e di "quesadillas" e
poi di nuovo in pulmino per la comunità di San Juan Chamula,
centro di pratiche religiose d'una comunità india, che non
hanno riscontro da nessun'altra parte. I Chamulani,
fierissimi nel difendere con orgoglio la loro indipendenza,
opponendo forte resistenza agli Spagnoli, sono oggi circa
40.000 anime, con autonomia amministrativa e religiosa, che
tramandano il mito d'un Cristo risorto dalla Croce solo per
trasformarsi in Sole.
Appena scesi dal pulmino, ci assale una frotta di ragazzine,
multicolori per abiti e fiocchi nei capelli neri come pece.
Offrono il loro piccolo artigianato: animaletti in
terracotta, braccialetti e cinture in cotone intrecciato;
non vogliono essere pagate subito perché, smaliziate, sanno
che poi potranno ottenere di più; ti dicono solo il loro
nome dandoti appuntamento all'uscita, come se la visita al
luogo sacro sapesse rendere più generosi gli animi dei buoni
credenti. Queste bambine in realtà, informa Bernardo, sono
già madri di 2 o 3 figli.
La visita molto affascinante e, al tempo stesso, inquietante
è un complesso connubio tra riti pagani e cattolicesimo. La
chiesa è un grosso edificio semivuoto: niente appeso alle
pareti, niente panche per sedersi, niente confessionali. Il
pavimento è tutto cosparso di aghi di pino, simbolo di
purificazione, e lungo le pareti, tante bacheche ognuna
contenente la sua bella statua di santo: ce ne sono di tutti
i tipi, per tutti i gusti, uomini a destra e donne a
sinistra: pare una rigorosa divisione tra Arcani Maggiori e
Minori! Oltre agli aghi di pino, il pavimento è cosparso di
piccole candele, disposte dai credenti con disegni simbolici
particolari. Altra cosa singolare: la bottiglietta di
Coca-cola che gli indios portano seco al fine di "ruttare"
fuori gli spiriti maligni! Fuori la chiesa, breve visita al
mercato dove G. J. continua l'interminabile sua collezione
di tartarughe: grandi, piccole, medie, brutte, belle, in
terracotta, in pietra...
Ci spostiamo nella seconda comunità, Zinancantán, dove G. J.
ormai duramente colpito dalla "Vendetta di Montezuma",
complice un bicchierone di latte bevuto a colazione, si
presta a tenere compagnia a David. Anche in questa comunità
i riti religiosi sono singolari: oltre agli aghi di pino,
vengono usati anche gerani, quali offerte per assicurarsi
ogni tipo di beneficio. Mentre il Capo, rimasto sul pulmino
e non ancora ripreso completamente dalla "vendetta", cerca
in impresa disperata insegnare all'autista David le
espressioni quali "cambiare acqua al lughero" o "telefonare
al Papa" come eufemismi dei bisogni corporali, il gruppo
visita brevemente la chiesa, e poi si lancia in acquisti di
tovaglie e arazzi in una bottega artigianale. Qualcuno cerca
inutilmente fotografare una ragazza intenta ad intagliare
abilmente degli avocado; la ragazza non gradisce, ma Silvana
con il suo mega-obbiettivo, la immortala di straforo.
Si rientra in albergo alle cinque e mezza, perché alle sei
abbiamo appuntamento con Sergio Castro (tel. 84.289), un
simpaticissimo personaggio molto interessante, per noi
subito Yanez perché ci ricorda il compagno di Sandokan. È
proprietario d'un piccolo museo etnologico nato per ricavare
fondi necessari ad aiutare gli indios chiapanechi. Ha
costruito già alcune scuole e ora dedica le sue giornate
alle cure mediche di vecchi e bambini. Ci fa vedere
interessanti diapositive sulle varie comunità ancora
esistenti in queste zone, poi, passando in un altra stanza,
ci illustra una singolare esposizione a manichini con tutti
i costumi ed utensili usati, nella vita quotidiana, dagli
indios delle varie etnie chiapaneche.
A piedi, lungo la via per l'albergo, riusciamo ancora a
comprare amache, braccialetti, coltelli; G. J. a dirittura
si diverte a mercanteggiare con un bimbetto, l'acquisto di
alcuni pupazzetti di pezza raffiguranti Marcos, armato di
tutto punto. Passando al Zocalo, il Jefe ci mostra al centro
della piazza il palco (sic!) in cui vengono trasmessi i
programmi e gli spettacoli dell'imprendibile Fantomas, al
secolo sub-comandante zapatista Marcos.
Si cena alle otto, e poi Silvana, Marilù, la Niña e Pietrone
si sfidano a Whist. Naturalmente G. J. stravince.
O lo avranno fatto vincere ?
Quarto pernottamento: S. Cristobal de las Casas - Hotel
Flamboyant
MERCOLEDI' 12 MARZO - S. CRISTOBAL / TONINÁ / AGUA AZUL /
PALENQUE
Si parte alle otto, a piedi, per un rapido giro nel centro
di San Cristobal.
Incappiamo subito in un coloratissimo mercatino giornaliero,
allestito dalle donne chamula, e ci si perde in
contrattazioni, dimentichi per un attimo anche dello scopo
della nostra puntata: la visita alla chiesa di Santo
Domingo. La chiesa è molto bella, edificata con l'attiguo
monastero attorno al 1550, ha una curiosissima facciata
barocca, ovviamente più tarda d'un secolo. Al suo interno
possiamo ammirare l'ambigua statua del "Niño de Poca", uno
strano bimbo in abiti bianchi, e con un capellino a larga
tesa, che lo fa sembrare un infante del Goya.
Usciti, a soddisfare la voglia di frutta delle partecipanti,
Bernardo ci porta allo specifico mercato campesiño: un'
esplosione di colori, di odori, di suoni; alla
variegatissima frutta e verdura, si mescolano i colori di
questa gente, colori intensi come il rosso, il verde, il
giallo, il viola. G. J. si ferma a comprare una serie di
coltellini e, in impeto di reminiscenze giovanili, compra
anche un'armonica a bocca da cui, dato il fiatone d'una età
non più in fiore, riesce a mala pena cavare qualche suono.
la Niña, invece, riesce a farsi abbindolare con una collana
d'ambra, che risulterà poi essere volgare plastica molto ben
lavorata. Siamo tutti pronti a consolarla con le solite
frasi di circostanza: "Ma sembra proprio vera! Basta piaccia
a te! Ma gli altri mica lo sanno che non è autentica!"
Si parte per Toniná, classica città-stato che riuscì tenersi
indipendente sia da Palenque sia da Yaxchilán, anche se il
suo declino avvenne contemporaneamente al loro nell'800 d.C.
Il viaggio è faticoso a bastanza: 100 km di "curve
pericolose" sino al desvio di Ococingo, dove la "ruta"
prosegue come semplice "carretera de tierra" se si vuol
andare a Toniná anzi che a Palenque. E lungo lo sterrato che
mena al sito archeologico c'è anche un posto di blocco
militare, data la duplice vicinanza al confine Guatemala e
al quartiere generale di Marcos, per il quale è opportuno il
Governo porti sempre avanti, agli occhi dei campesiños, la
sceneggiata dei pericolosi ribelli zapatisti, a cui crede
ormai soltanto Bertinotti, e pochi come lui. Il controllo
dura alcuni minuti, tanto da preoccuparci per la nostra
sorte, chiusi in un pulmino, sotto il sole cocente,
sorvegliati a vista da "soldatini" armati di fucile. G. J.
assicura che la volta precedente hanno a dirittura
trattenuto sino al ritorno tutti i passaporti.
Ancora qualche chilometro di sterrato ed eccoci in vista di
Toniná, il cui nome significa "casa di pietra". L'incontro
non è poi così entusiasmante come preannunciato, tanto che
anche il Grande Capo ne rimane deluso, lui la ricordava
incastonata nel verde rigoglioso della vegetazione
novembrina, mentre adesso, all'uscita dell'inverno, tutto è
secco e monotono. Ci addentriamo per il sentiero che,
attraversato un ruscello, sale su per una scarpata per
sbucare in un pianoro da cui s'innalza una piccola collina a
terrazze naturali, sette piattaforme di pietra su cui
poggiano le strutture più importanti. Sulla spianata ai
piedi del pendio ci sono un piccolo campo da Gioco della
palla e molte importanti sculture in pietra calcarea, dischi
calendarici e figure a tutto tondo. La parte più
interessante è di certo tra la terza e la quarta terrazza,
dove le murature formano "X" con andamento a zig-zag che
simboleggia, ci dicono, Quetzalcoatl, oltre che adempiere
onorevolmente alla loro funzione di scala. Alla base, i
resti d'una tomba con gradini volti ad un altare sacrificale
e, dietro, un complesso di camere, corridoi e scalinate:
tutto questo doveva forse essere il centro amministrativo di
Toniná.
Facciamo comunque una visita accurata, pur se con l'ansia di
non arrivare in tempo alle cascate dell'Agua Azul per il
tanto agognato bagno, e Pietrone riesce a mostrare alle
vestali più attente anche l'emozionante stanzetta-museo, con
gli interessantissimi reperti, appena tolti dal terreno,
riuscendo persino in una accurata ripresa.
In effetti, con varie soste di ricupero per chi soffre la
strada alquanto tortuosa, arriviamo all'Agua Azul che il
sole è già in procinto di tramontare. Il posto è troppo
bello per non dedicargli almeno un tuffo e così tutti a
bagno sotto la cascata a farci massaggiare dalle acque
impetuose. Proprio sotto la cascata, c'è anche qualche
birichino che si diverte a immaginare le umoristiche
conseguenze dell'arrivo d'un qualche grosso tronco portato
dalle acque.
Mentre più tardi, rivestiti, saliamo a piedi il sentiero che
aggira la cascata, immergendoci in una giungla che, alquanto
attrezzata turisticamente ha ormai perso tutta la sua
verginità, cogliamo le evoluzioni in alto d'un trabiccolo
volante che porta i turisti a vedere la giungla dall'alto, e
il Pietrone ci fa un pensierino... per la prossima volta.
Quando scendiamo, i venditori stanno sloggiando, ma G. J.
non può rinunciare all'acquisto della sua ennesima tartaruga
quotidiana; anzi ne compra due, che fungono anche da
ocarina. Sono le sei e ci s'incammina verso Palenque,
voltando e rivoltando, con nostra immensa goduria, su e giù
per le colline chiapaneche.
Giunti a Palenque, prima di guadagnare l'albergo, ci
rechiamo nel piccolo aeroporto a cercare il "Niño", mitico
personaggio dei ricordi di G. J., proprietario d'un piccolo
aereoplanino assolutamente necessario per il volo nella
Selva Lacandona per portare i malcapitati sulle ruinas di
Yaxchilán e Bonampak. Perché malcapitati ? Chi ha conosciuto
il Niño può ben capirlo! Dopo varie discussioni, e una
puntata del Niño con Bernardo e il Jefe in Palenque alla
ricerca del suo "segretario" che avendo due famiglie non si
sa mai dove sia, emerge solo la disponibilità certa d'un
aereo l'indomani mattina: un gruppo potrebbe così fare l'
escursione al mattino, mentre il secondo gruppo avrebbe
esattamente l'80 % di possibilità di non partire il
pomeriggio! G. J., a cui il Niño ha chiesto 125 dollari a
testa (25 più del precedente viaggio di Novembre!), decide
rivolgersi a qualcun altro anche se, in via cautelativa,
saluta il Niño facendogli credere che il primo gruppo sarà
sicuramente schierato per la partenza l'indomani mattina all
'ora concordata. E raggiunge gli altri in albergo,
trovandoli già tutti a tavola.
Dopo cena tutti a dormire, tranne Bernardo, David, la Niña e
il G. J. che, vistisi rifiutare per l'ora tarda un Margarita
in albergo, vanno a farsene uno doppio in paese, in un
locale del centro!
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Rosy®